Continua l’ossessione delle scale mobili. Un regista avrebbe inquadrature perfette per scene come queste, ma il suo film consegnerebbe agli sguardi curiosi del pubblico pagante, macchiati da chiazze di incredulità e compassione, un’immagine distorta e poco veritiera del burlone mascherato.
Sono su una scala mobile in salita.
La telecamera è posizionata di fronte all’arrivo, io salgo e a poco a poco entro nella visuale, il regista entusiasta urla buona la prima!
Bravi, bravi a tutti quanti. Ma il cameraman dice che qualcosa non ha funzionato. Il regista va a controllare, imprecando contro gli incapaci che assume e l’inaffidabilità del digitale. Stop, rewind. Che cosa è che non avrebbe dovuto funzionare. Play.
Scala mobile che inizia la sua corsa, luce perfetta, altezza giusta, burlone che si comincia a intravedere. Si gira verso i suoi collaboratori. Nota che non si sono ancora ricreduti sul buon esito della scena. Non è finita. Le sue pupille mettono di nuovo a fuoco il display.
Datemi gli occhiali per favore.
Capo ce li ha già gli occhiali.
Si stropiccia gli occhi.
Avete ragione, c’è qualcosa che non va.
Deglutisce.
Chiamatemi il burlone.
Chi è capo, ce lo descriva.
Ma se l’avete visto due minuti fa, è quello…
Si rende conto di non ricordarselo neanche lui. E’ furibondo, non tanto per la stranezza della cosa, ma perché gli manca l’attore principale del cast e quello strano individuo si è volatilizzato.
Dove sono io?
Visitare i luoghi del possibile non mi è mai interessato, preferisco esplorare quelli dell’immaginabile.
Non ho bisogno di guardare quello che hanno filmato, so già ciò che hanno visto.
Semplicemente non mi hanno visto, al mio posto c’è soltanto una sagoma dai contorni sfocati.
Non riescono a vedermi, ma almeno adesso si rendono conto della mia presenza. Solo che se ne dimenticano subito dopo. Lo so che è complicato, ma è perché si chiedono chi sono e come sono fatto. Non si domandano perché in una telecamera rimane solo una traccia del mio passaggio, ma non esiste la mia figura.
E non hanno nemmeno notato la maschera che ho lasciato sulla scala e che l’ultimo gradino, scomparendo sotto di me, ha depositato sul pavimento.
Forse perché dietro di me c’era lei.
Chi è non ha importanza, adesso è contenta perché ha preso il mio posto nel cast. Si vede che ha stoffa, mentre io per fare l’attore non sono proprio portato.
E poi lei nell’inquadratura si vede eccome.
E’ una donna, circondata da gente che non conosce e che non parla la sua lingua. Sorride, e gioca lanciando una piccola pietra per poi riprenderla con entrambe le mani.
In quel gesto c’è tutta l’innocenza di una infanzia bruciata e di una bambina costretta a crescere troppo in fretta e da sola, a cambiare mondo e vita per avere un presente, prima ancora che un futuro.
Sguardo deciso ed esotico, camminata disinvolta, ostentatrice di sicurezza che rivela le sue paure.La telecamera è posizionata di fronte all’arrivo, io salgo e a poco a poco entro nella visuale, il regista entusiasta urla buona la prima!
Bravi, bravi a tutti quanti. Ma il cameraman dice che qualcosa non ha funzionato. Il regista va a controllare, imprecando contro gli incapaci che assume e l’inaffidabilità del digitale. Stop, rewind. Che cosa è che non avrebbe dovuto funzionare. Play.
Scala mobile che inizia la sua corsa, luce perfetta, altezza giusta, burlone che si comincia a intravedere. Si gira verso i suoi collaboratori. Nota che non si sono ancora ricreduti sul buon esito della scena. Non è finita. Le sue pupille mettono di nuovo a fuoco il display.
Datemi gli occhiali per favore.
Capo ce li ha già gli occhiali.
Si stropiccia gli occhi.
Avete ragione, c’è qualcosa che non va.
Deglutisce.
Chiamatemi il burlone.
Chi è capo, ce lo descriva.
Ma se l’avete visto due minuti fa, è quello…
Si rende conto di non ricordarselo neanche lui. E’ furibondo, non tanto per la stranezza della cosa, ma perché gli manca l’attore principale del cast e quello strano individuo si è volatilizzato.
Dove sono io?
Visitare i luoghi del possibile non mi è mai interessato, preferisco esplorare quelli dell’immaginabile.
Non ho bisogno di guardare quello che hanno filmato, so già ciò che hanno visto.
Semplicemente non mi hanno visto, al mio posto c’è soltanto una sagoma dai contorni sfocati.
Non riescono a vedermi, ma almeno adesso si rendono conto della mia presenza. Solo che se ne dimenticano subito dopo. Lo so che è complicato, ma è perché si chiedono chi sono e come sono fatto. Non si domandano perché in una telecamera rimane solo una traccia del mio passaggio, ma non esiste la mia figura.
E non hanno nemmeno notato la maschera che ho lasciato sulla scala e che l’ultimo gradino, scomparendo sotto di me, ha depositato sul pavimento.
Forse perché dietro di me c’era lei.
Chi è non ha importanza, adesso è contenta perché ha preso il mio posto nel cast. Si vede che ha stoffa, mentre io per fare l’attore non sono proprio portato.
E poi lei nell’inquadratura si vede eccome.
E’ una donna, circondata da gente che non conosce e che non parla la sua lingua. Sorride, e gioca lanciando una piccola pietra per poi riprenderla con entrambe le mani.
In quel gesto c’è tutta l’innocenza di una infanzia bruciata e di una bambina costretta a crescere troppo in fretta e da sola, a cambiare mondo e vita per avere un presente, prima ancora che un futuro.
Addio bambina.
1 commento:
Grazie per avermi linkato, ho ricambiato la cortesia.Appena avrò un pò di tempo ti leggo con calma. Un caro saluto a presto Davide
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